NICOLAS EYMERICH

 

 

 

Il puzzo di sego rancido era diventato insopportabile, sotto la pelle di capra mai conciata Eymerich sentiva il caldo cocente della giornata estiva, camminava attento a non inciampare, riuscendo a malapena ad intravedere un barlume di luce intorno ai suoi piedi, mai avrebbe concesso ai suoi rapitori di ingiuriarlo nuovamente e di prenderlo a calci, no, non sarebbe più caduto a terra.

     Poche parole in un linguaggio incomprensibile erano state l’unico rumore della giornata, improvviso lo raggiunse un colpo di bastone alla schiena insieme all’ennesima ingiuria.

     “Ehi frate, credevi di svegliarti tra le braccia di una puttana e ti ritrovi a camminare al buio, resisti e ne vedrai la fine.”

     Sentì pronunciare in chiaro spagnolo. Ma non rispose, i suoi pensieri stavano schiarendosi, iniziava distintamente a ricordare la sera prima.

     Rammentava i saluti ed i ringraziamenti, dietro gli sguardi torvi, mentre usciva da Alghero dirigendosi con la sua scorta ad una locanda, dove avrebbe dovuto trascorrere in sicurezza la notte, in attesa del vascello che lo riportasse in Spagna.

     La faccia butterata dell’oste che mesceva un vino troppo dolce e resinato si sovrapponeva al letto della puttana dove aveva perso i sensi, era stato evidentemente drogato, ma la sua scorta ed il suo pupillo dove erano finiti, e chi osava trattarlo in questo modo.

     “Chi siete bastardi, vi ridurrò in cenere!” urlò.

     Nuovi colpi lo fecero stramazzare al suolo, risa e calci si susseguirono finché non perse nuovamente i sensi, più tardi, riprendendo conoscenza a causa del freddo, si rese conto che era buio, legato mani e piedi e coricato sul basto di un mulo mentre continuava il suo viaggio.

     Anche in seguito non seppe mai dirsi quanto tempo trascorse in cammino, forse due o tre giorni, senza mai bere e in uno stato di continuo delirio, provocato in gran parte da lui stesso nel tentativo di estraniarsi con la preghiera.

Si svegliò cadendo a terra, la pelle gli venne strappata via di dosso, si coprì gli occhi con la mano, ma il sole non lo ferì, si trovava sotto il costone di una montagna, all’interno dell’imbocco di una grotta.

     “Il nostro prete si è svegliato, dategli da bere,” sussurrò uno dei suoi rapitori.

     Gli avvicinarono il bordo di una zucca e lui bevve avidamente.

     “Caro prete siamo arrivati a destinazione!”

     Nicholas si girò verso la voce, squadrò il suo carceriere, mentre gli altri due si dirigevano verso l’imbocco della caverna, era un giovane basso dall’aspetto trasandato, vestito come un pastore ma la sua padronanza dello spagnolo ne tradivano trascorsi ben diversi di quelli di un  rozzo isolano.

     “Mi stai studiando, bravo, avrai molto da capire in nostra compagnia.” gli disse.

     “Chi siete, cosa credete di potermi fare, non ho paura di miserabili come voi!” urlò Eymerich.

     L’altro si alzò, infilando la mano nelle tasche dei luridi calzoni estrasse un coltello a serramanico e aprendolo gli sussurrò:

     “Non devi aver paura di noi, ma di te stesso, o almeno di quello diventerai,”

     L’urlo gli proruppe spontaneo dalla gola, “Demoni maledetti..!”

     Ma gli fu stroncato da una striscia di pelle che gli venne infilata tra le mandibole e legata dietro la testa da uno dei due complici.

     Il giovane, prendendo la correggia a mò di morso gli disse.

     “Adesso comportati bene, avrai tempo dopo di lamentarti,” e strattonandolo come un mulo recalcitrante si inoltrarono nell’antro.

     La luce delle torce non erano certo d’aiuto ad Eymerich ,che comunque, non vide altro che colonne di calcare gocciolanti, era il rumore semmai ad infastidirlo, questo continuo scrosciare di acqua, come se si stessero dirigendo verso un fiume sotterraneo.

     E questo ed altri trovarono ed attraversarono per ore, mentre si trascinava da una pozzanghera ad un guado, con i piedi feriti e le sue pregiate scarpe di Saragozza distrutte.

     Infine, quando credeva di non riuscire più ad andare avanti, venne scaraventato su di un giaciglio di paglia, dove stramazzò al suolo, l’ultima cosa che sentì, prima di svenire, fu un forte dolore al cranio, un ennesimo colpo.

     “Sei sicuro di averlo colpito abbastanza forte?” esclamò Gavino il giovane pastore al suo amico Tore.

     “Non credo neanche che fosse necessario, era già cotto,” rispose Tore.

     “Bene allora dagli una passata di Salua e aspettiamo.”

     Tore estrasse due rami di una pianta, dallo zaino di pelle che portava sulle spalle, spezzatili in due ne cosparse le mani di Eymerick della densa linfa lattea che ne fuoriuscì, prestando la massima attenzione a non sporcarsene. Finita l’operazione, si diresse verso la caverna successiva dove Gavino ed Antoni stavano già mangiando un frugale pasto.

     Eymerick si svegliò di soprassalto, timoroso di ricevere ulteriori colpi, scattò improvvisamente in piedi e si volse freneticamente intorno, ma solo il buio lo circondava, l’unica fioca luce proveniva dall’ altra caverna insieme ad un sommesso russare.

     Affacciatosi vide i suoi carcerieri riversi a dormire, ma una voce in spagnolo stentato lo sorprese al suo fianco.

     “Torna di là,oppure…”

     La visione del riflesso di una lama lo costrinse ad una rapida ritirata.

     Esaminando lo spazio a lui riservato si diresse il più lontano dal giaciglio per orinare su di una parete di calcare, l’aumentare dell’intensità della luce lo fece girare e scorse uno dei suoi carcerieri che si allontanava dopo avergli deposto qualcosa a terra.

     Ora dopo giorni di duro cammino poteva finalmente nutrirsi, un pasto frugale ma che comunque lui benedisse prima di incominciare,

     “Tipico dei pastori,” pensò, assaggiando formaggio e ricotta secca troppo salati, anche il pane era secco ed in sfoglie sottili, tutti rimedi per una lunga conservazione che non lo tranquillizzò, bevve dalla zucca decorata un forte vino rosso, avrebbe preferito dell’acqua, ma gli parve che riprendesse meglio le forze. Satollo, tornò a coricarsi mentre il ventre iniziava a prudergli.

     Furono le sue stesse urla a risvegliarlo, ululava come un ossesso in preda ad un furore devastante che gli stava incendiando il corpo, toccandosi con attenzione sentì le labbra tumefatte e sformate, gli occhi con le palpebre chiuse da un orribilmente gonfie non gli consentivano di orientarsi, il basso ventre gli esplodeva dal bruciore

     “Che voi siate maledetti, cosa mi avete fatto, che razza di veleno è mai questo?” urlo Eymerick, ma nello stesso istante si sentì preso per le spalle e sbattuto a terra, il proprio corpo inutile non ne voleva sapere di reagire, mentre due mani gli tenevano il cranio sentì nettamente le carni delle palpebre aprirsi attraverso una lama di ferro ed il liquido delle pustole fuoriuscirvi bollente.

     Mentre le luci si distinguevano nuovamente e gli occhi riprendevano la visibilità i suoi carcerieri gli apparvero sorridenti.

     “Oh prete, và meglio? Sei stato cattivo, non ti hanno insegnato in oratorio di non toccarti gli occhi dopo aver pisciato?” uno scroscio di risa coprì nuovamente i suoi pensieri mentre il bruciore al pene era diventato irresistibile. “Guardati cosa ti sei fatto, non puoi certo andare in giro così, faresti felici tutte le puttane di Spagna!” gli disse Gavino.

     Preso coraggio e con le palpebre ormai sgonfie Eymerick volse il suo sguardo verso le gambe, solo il movimento della veste gli procurò delle fitte indicibili, quando riuscì infine ad alzarla ciò che vide lo lasciò allibito.

     Il suo membro era enorme, annodato da vene pulsanti di sangue con un glande infuocato color porpora, sovrastava uno scroto ignobile simile ad una mammella di un vacca; l’associazione visiva intensificò il dolore, ed infine svenne.

     L’immobilità assoluta dei giorni seguenti rese il suo corpo debole, la lucidità della sua mente venne meno, dilaniato com’era della febbre altissima, resa più tragica dall’essere dissetato esclusivamente con vino. Più e più volte chiese al Signore di morire ma infine si ritrovò riverso nei suoi stessi escrementi nel solito giaciglio di paglia.

     Rendendosi conto di essere trascinato, provò a parlare, ma la lingua tumefatta e gonfia non gli consentì di esprimere alcun suono, finche il contatto con l’acqua gelata dove fu scaraventato non gli fece uscire un urlo raccapricciante.

     Lo sfrigolio della carne sullo spiedo stimolò le sue papille gustative, aprì gli occhi e, seduto con la schiena appoggiata alla parete vide, di fronte a lui, il suo carceriere.

     “Buongiorno prete, ti trovo meglio oggi. Forse un invito a pranzo riuscirà a farti riprendere,” disse Gavino.

     Sillabando attentamente, mentre le singole parole gli si formavano sulle labbra Eymerick rispose:

     “Perché sono ancora vivo, non è la mia morte che cercate?”

     “Nobile padre, ciò che cerchiamo, e dovreste saperlo bene, è lo stesso che voi provate a trovare sottoponendo i vostri discepoli alla tortura, forse con metodi diversi ma sempre nella convinzione che a riusciate a riconoscere l’immondo che è dentro di voi,” gli sorrise Gavino.

     Conscio della situazione di prigioniero debilitato, ed ormai non più sprezzante inquisitore ma in serio pericolo per la propria vita, Eymerick, che faticosamente recuperava i propri processi mentali gli chiese:

     “Di quale setta satanica siete? Io non mi devo rammaricare di nulla del mio operato, e nella mia coscienza nutro una ferrea convinzione di lealtà verso il Papa, che troverà certo il modo di ricacciarvi dagli inferi da dove provenite.”

     La risposta gli giunse nel solito tono sottovoce.

     “Non proveniamo da alcun inferno e professiamo la stessa dottrina, non è questo il punto, Inquisitore. Noi siamo solo dei poveri Bailantes che cercano di sopravvivere con i frutti della nostra terra, finchè gente come voi viene a privarcene. Solo allora siamo costretti ad applicare il Codice Barbaricino le nostre leggi della sopravvivenza che ci costringono a comportarci come nel vostro caso, anche se con lei proveremo un trattamento particolare”

     “E allora sia, non temo il vostro giudizio e mai mi piegherò alle minacce di quattro pastori male in arnese” sbottò Eymerick.

     “Non mi aspetto certo che capiate, ma cercherò di spigarmi. Dovete sapere che la nostra è una piccola popolazione che è sempre stata soggetta ad attacchi e razzie di ogni tipo, mistificate o meno da motivi religiosi, ma sempre e comunque finalizzate alla riscossioni di tributi e balzelli, applicando razzie e violenze di ogni tipo. L’unico modo di difenderci è sempre stato quello di arretrare nell’entroterra, quando questo non è più bastato, l’unico sistema, che ci ha reso possibile resistere ai soprusi, è stato questo, prelevare un responsabile e deciderne la sorte in queste montagne dispensando terrore e dubbi ai suoi simili. Immagino che non lo consideriate il migliore dei metodi ma in confronto ai vostri non mi sento di dovermene vergognare”

     “Quando si saprà di questo affronto le truppe Spagnole metteranno a ferro e fuoco la vostra popolazione e voi sarete i responsabili della morte dei vostri figli. Quando la mano di Dio calerà su queste genti non resterà più legna da ardere!” urlò Eymerick.

     “Tore, accudisci alla carne, accompagno il nostro ospite a fare una visita.”

     Mentre il compagno si avvicinava al fuoco, Gavino prese Eymerick per un braccio e lo alzò.

     Dalla scioltezza utilizzata in questo gesto Nicolas dedusse il proprio ridottissimo peso, il suo fisico era ormai un ricordo, e trascinò stancamente le sue membra dietro il pastore alla luce di una torcia.

     Arrancando, trascinato dalla forte stretta, riuscì a percorrere i pochi metri che lo separavano dalla caverna successiva, e mentre scivolava a terra la presa del pastore passò dal suo braccio al medaglione che portava al collo, la cui catena cedette.

     Osservandolo attentamente Gavino disse, “Ti tratti bene, mio buon prete, è sicuramente adeguato al tuo rango.”

     Accese con la torcia una lanterna appesa alla parete e scagliò il monile sopra una cassapanca, dove si perse in una moltitudine di altri oggetti.

     “Potresti definire questo luogo come uno dei vostri numerosi archivi del peccato. Guardati intorno e ti ritroverai in buona compagnia” esclamò Gavino.

     Incuriosito Eymerick percorse pochi metri e rimase allibito: la sua conoscenza gli permise di identificare vari oggetti, guardando il suo carceriere eternamente alle prese con il coltello, rifiuto l’idea di afferrare una corta daga probabilmente Romanica, di splendida fattura come un elmo ormai corroso dai decori greci.

     In mezzo a brandelli di stoffa ormai consunti vide il suo medaglione, vicino ad altri gioielli grossolanamente lavorati, forse Fenici, un brivido lo percorse quando riconobbe una pettorale di acciaio da ufficiale Spagnolo.

     Altri oggetti indecifrabili colpirono la sua attenzione, splendidi elmi di lucido acciaio con visiere in cristallo, bracciali neri in materiali elastici sconosciuti, lunghe aste cilindriche con else sagomate per mani enormi, tutti oggetti che nessun proprietario avrebbe mai voluto abbandonare.

     Distintamente si rese conto che non sarebbe mai uscito vivo da lì.

     “Andiamo, è ora di pranzo, questa visita ti ha troppo affaticato.” lo esortò il suo carceriere.

     “Chiedete quello che volete, dalla Spagna vi copriranno d’oro in cambio della mia libertà,” sussurrò Eymerich.

     “Mi dispiace deludervi, ma non credo che ci sia nessuno disposto a perdere quest’occasione per sbarazzarsi di vostra santità, anzi sono sicuro che potremmo ottenere di più garantendo la vostra ascesa nel mondo dei cieli, e comunque non è questo il cammino di redenzione che vi aspetta,” un ghigno  di scherno completava  la frase.

     Seduto nella sua cella, mentre si cibava avidamente di un pezzo di carne, Eymerick, rivedendo le facce dei suoi conoscenti cercava disperatamente, ma senza certezze, di identificarne qualcuno che fosse disposto a pagare il prezzo della sua vita.   

     Trascorsero numerosi giorni, durante i quali l’inquisitore ebbe modo di riconquistare parte delle sue forze, nonostante non osasse uscire dalla sua prigione vedeva i suoi carcerieri trattarlo con una naturalezza derivante dalla sicurezza che ogni tentativo di fuga sarebbe stato vano.

     I dialoghi pressoché inesistenti si riducevano a monosillabi ed ingiurie, unico fatto nuovo la presenza, da alcuni giorni, di una femmina addetta a porgergli i pasti. Sembrava quasi che i suoi sprezzanti rapitori li lasciassero addirittura soli per diverse ore, particolare che gli infuse nuove speranze.

     Osservava questa giovane donna ogni volta che si presentava, bruna, bassa di statura e di corporatura magrissima, sembrava ignorare completamente lo spagnolo; scalza, i sui abiti si riducevano esclusivamente ad una lunga pelle di pecora annodata in vita che le scendeva dalle spalle, il suo svincolarsi all’unico  tentativo di prenderle un polso ne davano l’impressione di una forza ed una tonicità inusuali, forse temprata dalla dura vita della montagna, pensò Eymerich.

     L’atteggiamento rassegnato gli valse nei giorni seguenti una serie di migliorie alla sua situazione, gli era anche concesso sporadicamente di partecipare ai frugali pasti in occasione degli arrosti di selvaggina, ma sempre nel tacito accordo che non violasse il silenzio che li caratterizzava, solo poche frasi di scherno da parte dei suoi rapitori, personaggi assolutamente taciturni che raramente si esprimevano sempre nel loro dialetto incomprensibile.

     Anche le dosi di vino, unico liquido concessogli, non gli vennero mai meno. L’onnipresente zucca colma fu per lui l’unico vero motivo di screzio quando, in preda ad una sbornia violenta, venne malmenato e legato perché potesse smaltirla.

     Strana prigionia la sua, sempre più spesso si ritrovava ad analizzare quella che aveva fatto subire lui come carnefice, ma non ne trovava paralleli, le sue vittime erano, o indemoniati sprezzanti della morte, oppure  timorosi terrorizzati a cui la morte sopraggiungeva come una liberazione.

     Quale logica trovare nel suo stato, in questa prigionia senza catene, senza certezza della morte, dove poter condividere il pasto con i propri carcerieri, da questa indeterminatezza continua non riusciva a trarre beneficio neanche dalla preghiera.

     Nonostante pregasse e si flagellasse fino allo sfinimento, non riusciva a trovare le risposte ed il conforto di cui aveva estremo bisogno, non gli erano state rivolte delle accuse e non era stato minacciato di morte, aveva completamente perso il senso del tempo e solo il suo fisico, in netto miglioramento, sembrava beneficiarne.

     Semmai il suo stato mentale non dava segno di recupero, sopravvivevano alla veglia  gli incubi che lo avevano destato in modo tragicamente distinto, non che si trattasse di allucinazioni, erano delle grottesche associazioni di ricordi distinti, fuori da ogni contesto, collegati tra loro da chissà quale perversa logica.

     E quindi rammentava, la bimba che rimase abbracciata alla madre quando lui ordinava di dar fuoco alla pira, la condannata deflorata dai suoi aguzzini mentre lui invocava il nome del Signore, la sua ispezione ai resti della popolazione che aveva dato alle fiamme e lo scoprire sotto i cadaveri degli adulti i corpi dei propri figli soffocati, e poi ancora le torture, gli arti strappati, le mutilazioni, ed infine i giovani adolescenti, e le sofferenze che gli aveva imposto considerandole vittime predestinate del Demonio, lo lasciavano al risveglio insieme al malessere carnale dell’erezione che immancabilmente provava.

     Sopravveniva la rabbia sorda della convinzione svanita, dei lunghi anni da  inquisitore distrutti da questa anomala prigionia, dove le esperienze acquisite, che avrebbero dovuto fortificarlo, erano scomparse.

     Da questo stato, sudato e delirante, lo riscosse il richiamo della giovine. 

     “Il solito galante invito a pranzo in compagnia di questi esseri poco più che animali,” sussurrò Eymerich mentre si alzava e la seguiva.

     Con sua sorpresa non trovò i pastori, erano soli, lui e la donna dalla pelle di pecora, accomodatosi notò intorno al piccolo fuoco diverse pietanze e questo lo incuriosì.

     Per la prima volta gli fu concesso di servirsi per primo, mentre strappava una coscia della lepre arrostita, vide la sua zucca riempirsi di vino tinto. Che piacere rivedere dei gesti da privilegio, forse che la selvaggia iniziasse a comprendere con chi aveva a che fare.

     Seguirono sorrisi e risolini in quel pasto paradossale, dove la carne veniva gustata intingendola in un miele scuro e amaro.

     Insieme al formaggio, dal gusto dolce e delicato, gustò dei magnifici fichi, di cui pensava non avrebbe più assaporato il sapore, accompagnati da un aspro vino bianco e corposo dal profumo di mandorle.

     Alle sue timide richieste di spiegazione riceveva soltanto sorrisi e termini incomprensibili.

     Mentre il suo appagamento aumentava e rideva nervosamente, la ragazza scostò da sotto la cenere un involucro rotondo di pelle annerita, alla sua richiesta di spiegazioni essa apostrofò l’oggetto come “Callu”. [ultima poppata del capretto da latte, conservata all’interno delle pareti dello stomaco ed affumicata, ad alto potere afrodisiaco] Apertolo, ne fuoriuscì una pasta cremosa che venne spalmata sul pane sottile.

     Eymerich rimase stupito, la sua percezione dei sapori si esaltò, la crema sapeva sì di formaggio ma enormemente saporito e piccante, e dopo due morsi si sentì pervadere il corpo di una sferzata di calore ed energia, cercò di placare la sete ma nella zucca trovò un liquore denso e dolce, composto da bacche di mirto messe a macerare con dell’acquavite fortissima.

     Mentre si tuffava in questi sapori trovò la giovine al suo fianco che attizzava il fuoco e lo cospargeva di foglie secche da cui scaturiva un fumo aromatico.

     La vicinanza della donna prona sul focolare, le forze recuperate dal pasto, unite all’innaturale atmosfera di intimità creatasi, convinsero Eymerich ad allungare una mano verso la gamba della donna, che ispiegabilmente non si ritrasse.

     Convinto dai suoi desideri ed in preda allo stordimento alcolico iniziò a toccarla sempre più voluttuosamente, in tutto il corpo, non che lei lo sfuggisse, semmai era il suo corpo che lo respingeva, sentiva i forti muscoli sotto la sua mano farsi guizzanti, il seno piccolo e durissimo sembrava non avere capezzoli, quando le dita iniziarono a esplorarne il sesso la ragazza si allontanò.

     Nel buffo modo di rincorrersi a quattro zampe, come degli animali, Nicolas inseguì la giovine intorno al fuoco, mentre la ragione scompariva per dare spazio al desiderio irrefrenabile, l’arsura lo tormentava forzandolo a bere da ogni recipiente che incontrava, intravedendone tra le volute di fumo solo la vulva tra le magre gambe e la pelle di pecora sulla schiena.

     Il dolore lo strappò dal sonno, i forti calci alle costole gli tolsero il respiro, mentre i fumi dell’alcol tardavano a scomparire, il suo cervello intorpidito riconobbe le solite risa di scherno, cercando di coprirsi dalle scariche di colpi le sue narici percepirono l’odore di escrementi misto a sangue.

     I colpi terminarono. Appoggiato alla parete, mise a fuoco i suoi rapitori, mentre Gavino gli iniziò a parlargli.

     “Inquisitore, è arrivato il momento, dovremmo parlare delle sue colpe.”

     “La ragazza mia ha tratto in un tranello io non volevo…”  il gesto di una mano troncò le sue parole e capì che non sarebbe dovuto andare oltre, attese.

     “Le dicevo prete che è arrivato il suo momento. Si guardi intorno, riesce a ricordarsi cosa ha fatto in preda ai suoi istinti demoniaci?”

     Eymerich  volse lo sguardo verso la caverna, oltre ai resti del cibo e delle bevande sparsi intorno alle ceneri del fuoco ormai spento, vide nella penombra un corpo rannicchiato lungo la parete coperto dalla pelle di pecora. Di scatto si alzò e corse verso di esso, rigiratolo vide una pecora, una vera pecora, con il cranio spaccato ed il sangue coagulato su di una grossa pietra, evidentemente utilizzata per quello scopo, vide altro sangue imbrattargli le zampe e fuoriuscire dal ventre.

     “Che razza di sacrificio immondo è mai questo?” urlò rivolto ai pastori.

     “Non è un sacrificio, direi piuttosto un istinto animalesco, la bestia che lo ha causato è ancora qui con noi, e lei padre dovrebbe aiutarci a stabilire la giusta pena.”

     Nicholas non afferrava il senso di quelle frasi, iniziò a sfregarsi le mani e le vide ricoperte di escrementi e di sangue, anche la sua veste ne era sporca, la sensazione di sporcizia lo pervase, la sentì percorrergli tutto il corpo e focalizzarsi sul suo membro ed infine capì.

     “Noto con piacere che ha già scoperto il colpevole, lasci che le ricordi che non sazio del cibo e del vino ha cercato di violentare la ragazza che è riuscita a sfuggirle, a quel punto ha sfogato i suoi istinti su quella povera bestia che le avevamo portato qui. La consideri una prova padre, pensi ai sui peccati e ci chiami quando ha deciso la pena.”

     Voltatisi, uscirono. 

     Rimasto solo Eymerich crollò a terra, vani furono i tentativi di riordinare i sui pensieri, la colpa era troppo grave, non per il tentativo di omicidio ma per aver giaciuto con una bestia in preda a tali istinti demoniaci.

     Persa la lucidità, decenni di rigidità monastica e di sacre convinzioni gli rovinarono nella mente, distruggendola, stappatosi un lembo della veste si bendò gli occhi e cadde in delirio.

     Mai più osò sbendarsi, nonostante sentisse lontanamente le braccia che lo afferravano lo trascinavano e lo legavano, neppure la fredda temperatura dell’acqua lo riscosse dai suoi pentimenti.

     Solo nella sua oscurità attendeva la liberazione di essere giustiziato.

     Infine si sentì afferrare per i fianchi e scaraventare a terra, la benda gli venne strappata dal viso, era notte  e l’aria fresca e leggera, si volse mentre cercava di rialzarsi e vide quattro ombre allontanarsi da lui.

     All’orizzonte stava albeggiando e le mura di Alghero si innalzavano poderose, mai sarebbe tornato in quella terra per lui incomprensibile.