NICOLAS EYMERICH
Il puzzo di sego rancido era
diventato insopportabile, sotto la pelle di capra mai conciata Eymerich sentiva
il caldo cocente della giornata estiva, camminava attento a non inciampare,
riuscendo a malapena ad intravedere un barlume di luce intorno ai suoi piedi,
mai avrebbe concesso ai suoi rapitori di ingiuriarlo nuovamente e di prenderlo
a calci, no, non sarebbe più caduto a terra.
Poche parole in un linguaggio
incomprensibile erano state l’unico rumore della giornata, improvviso lo
raggiunse un colpo di bastone alla schiena insieme all’ennesima ingiuria.
“Ehi frate, credevi di svegliarti tra le
braccia di una puttana e ti ritrovi a camminare al buio, resisti e ne vedrai la
fine.”
Sentì pronunciare in chiaro spagnolo. Ma non
rispose, i suoi pensieri stavano schiarendosi, iniziava distintamente a
ricordare la sera prima.
Rammentava i saluti ed i ringraziamenti,
dietro gli sguardi torvi, mentre usciva da Alghero dirigendosi con la sua
scorta ad una locanda, dove avrebbe dovuto trascorrere in sicurezza la notte,
in attesa del vascello che lo riportasse in Spagna.
La faccia butterata dell’oste che mesceva
un vino troppo dolce e resinato si sovrapponeva al letto della puttana dove
aveva perso i sensi, era stato evidentemente drogato, ma la sua scorta ed il
suo pupillo dove erano finiti, e chi osava trattarlo in questo modo.
“Chi siete bastardi, vi ridurrò in cenere!”
urlò.
Nuovi colpi lo fecero stramazzare al
suolo, risa e calci si susseguirono finché non perse nuovamente i sensi, più
tardi, riprendendo conoscenza a causa del freddo, si rese conto che era buio,
legato mani e piedi e coricato sul basto di un mulo mentre continuava il suo
viaggio.
Anche in seguito non seppe mai dirsi
quanto tempo trascorse in cammino, forse due o tre giorni, senza mai bere e in
uno stato di continuo delirio, provocato in gran parte da lui stesso nel
tentativo di estraniarsi con la preghiera.
Si svegliò cadendo a terra, la
pelle gli venne strappata via di dosso, si coprì gli occhi con la mano, ma il
sole non lo ferì, si trovava sotto il costone di una montagna, all’interno
dell’imbocco di una grotta.
“Il nostro prete si è svegliato, dategli
da bere,” sussurrò uno dei suoi rapitori.
Gli avvicinarono il bordo di una zucca e
lui bevve avidamente.
“Caro prete siamo arrivati a destinazione!”
Nicholas si girò verso la voce, squadrò il
suo carceriere, mentre gli altri due si dirigevano verso l’imbocco della
caverna, era un giovane basso dall’aspetto trasandato, vestito come un pastore
ma la sua padronanza dello spagnolo ne tradivano trascorsi ben diversi di
quelli di un rozzo isolano.
“Mi stai studiando, bravo, avrai molto da
capire in nostra compagnia.” gli disse.
“Chi siete, cosa credete di potermi fare,
non ho paura di miserabili come voi!” urlò Eymerich.
L’altro si alzò, infilando la mano nelle
tasche dei luridi calzoni estrasse un coltello a serramanico e aprendolo gli
sussurrò:
“Non devi aver paura di noi, ma di te
stesso, o almeno di quello diventerai,”
L’urlo gli proruppe spontaneo dalla gola, “Demoni
maledetti..!”
Ma gli fu stroncato da una striscia di
pelle che gli venne infilata tra le mandibole e legata dietro la testa da uno
dei due complici.
Il giovane, prendendo la correggia a mò di
morso gli disse.
“Adesso comportati bene, avrai tempo dopo
di lamentarti,” e strattonandolo come un mulo recalcitrante si inoltrarono
nell’antro.
La luce delle torce non erano certo
d’aiuto ad Eymerich ,che comunque, non vide altro che colonne di calcare
gocciolanti, era il rumore semmai ad infastidirlo, questo continuo scrosciare
di acqua, come se si stessero dirigendo verso un fiume sotterraneo.
E questo ed altri trovarono ed
attraversarono per ore, mentre si trascinava da una pozzanghera ad un guado,
con i piedi feriti e le sue pregiate scarpe di Saragozza distrutte.
Infine, quando credeva di non riuscire più
ad andare avanti, venne scaraventato su di un giaciglio di paglia, dove
stramazzò al suolo, l’ultima cosa che sentì, prima di svenire, fu un forte
dolore al cranio, un ennesimo colpo.
“Sei sicuro di averlo colpito abbastanza
forte?” esclamò Gavino il giovane pastore al suo amico Tore.
“Non credo neanche che fosse necessario,
era già cotto,” rispose Tore.
“Bene
allora dagli una passata di Salua e aspettiamo.”
Tore estrasse due rami di una pianta,
dallo zaino di pelle che portava sulle spalle, spezzatili in due ne cosparse le
mani di Eymerick della densa linfa lattea che ne fuoriuscì, prestando la massima
attenzione a non sporcarsene. Finita l’operazione, si diresse verso la caverna
successiva dove Gavino ed Antoni stavano già mangiando un frugale pasto.
Eymerick si svegliò di soprassalto,
timoroso di ricevere ulteriori colpi, scattò improvvisamente in piedi e si
volse freneticamente intorno, ma solo il buio lo circondava, l’unica fioca luce
proveniva dall’ altra caverna insieme ad un sommesso russare.
Affacciatosi vide i suoi carcerieri
riversi a dormire, ma una voce in spagnolo stentato lo sorprese al suo fianco.
“Torna di là,oppure…”
La visione del riflesso di una lama lo
costrinse ad una rapida ritirata.
Esaminando lo spazio a lui riservato si
diresse il più lontano dal giaciglio per orinare su di una parete di calcare,
l’aumentare dell’intensità della luce lo fece girare e scorse uno dei suoi
carcerieri che si allontanava dopo avergli deposto qualcosa a terra.
Ora dopo giorni di duro cammino poteva
finalmente nutrirsi, un pasto frugale ma che comunque lui benedisse prima di
incominciare,
“Tipico dei pastori,” pensò, assaggiando
formaggio e ricotta secca troppo salati, anche il pane era secco ed in sfoglie
sottili, tutti rimedi per una lunga conservazione che non lo tranquillizzò,
bevve dalla zucca decorata un forte vino rosso, avrebbe preferito dell’acqua,
ma gli parve che riprendesse meglio le forze. Satollo, tornò a coricarsi mentre
il ventre iniziava a prudergli.
Furono le sue stesse urla a risvegliarlo,
ululava come un ossesso in preda ad un furore devastante che gli stava
incendiando il corpo, toccandosi con attenzione sentì le labbra tumefatte e
sformate, gli occhi con le palpebre chiuse da un orribilmente gonfie non gli
consentivano di orientarsi, il basso ventre gli esplodeva dal bruciore
“Che voi siate maledetti, cosa mi avete
fatto, che razza di veleno è mai questo?” urlo Eymerick, ma nello stesso
istante si sentì preso per le spalle e sbattuto a terra, il proprio corpo
inutile non ne voleva sapere di reagire, mentre due mani gli tenevano il cranio
sentì nettamente le carni delle palpebre aprirsi attraverso una lama di ferro
ed il liquido delle pustole fuoriuscirvi bollente.
Mentre le luci si distinguevano nuovamente
e gli occhi riprendevano la visibilità i suoi carcerieri gli apparvero sorridenti.
“Oh prete, và meglio? Sei stato cattivo,
non ti hanno insegnato in oratorio di non toccarti gli occhi dopo aver pisciato?”
uno scroscio di risa coprì nuovamente i suoi pensieri mentre il bruciore al
pene era diventato irresistibile. “Guardati cosa ti sei fatto, non puoi certo
andare in giro così, faresti felici tutte le puttane di Spagna!” gli disse
Gavino.
Preso coraggio e con le palpebre ormai
sgonfie Eymerick volse il suo sguardo verso le gambe, solo il movimento della
veste gli procurò delle fitte indicibili, quando riuscì infine ad alzarla ciò
che vide lo lasciò allibito.
Il suo membro era enorme, annodato da vene
pulsanti di sangue con un glande infuocato color porpora, sovrastava uno scroto
ignobile simile ad una mammella di un vacca; l’associazione visiva intensificò
il dolore, ed infine svenne.
L’immobilità assoluta dei giorni seguenti
rese il suo corpo debole, la lucidità della sua mente venne meno, dilaniato
com’era della febbre altissima, resa più tragica dall’essere dissetato
esclusivamente con vino. Più e più volte chiese al Signore di morire ma infine
si ritrovò riverso nei suoi stessi escrementi nel solito giaciglio di paglia.
Rendendosi conto di essere trascinato,
provò a parlare, ma la lingua tumefatta e gonfia non gli consentì di esprimere
alcun suono, finche il contatto con l’acqua gelata dove fu scaraventato non gli
fece uscire un urlo raccapricciante.
Lo sfrigolio della carne sullo spiedo
stimolò le sue papille gustative, aprì gli occhi e, seduto con la schiena
appoggiata alla parete vide, di fronte a lui, il suo carceriere.
“Buongiorno prete, ti trovo meglio oggi. Forse
un invito a pranzo riuscirà a farti riprendere,” disse Gavino.
Sillabando attentamente, mentre le singole
parole gli si formavano sulle labbra Eymerick rispose:
“Perché sono ancora vivo, non è la mia
morte che cercate?”
“Nobile padre, ciò che cerchiamo, e
dovreste saperlo bene, è lo stesso che voi provate a trovare sottoponendo i
vostri discepoli alla tortura, forse con metodi diversi ma sempre nella
convinzione che a riusciate a riconoscere l’immondo che è dentro di voi,” gli
sorrise Gavino.
Conscio della situazione di prigioniero
debilitato, ed ormai non più sprezzante inquisitore ma in serio pericolo per la
propria vita, Eymerick, che faticosamente recuperava i propri processi mentali
gli chiese:
“Di quale setta satanica siete? Io non mi
devo rammaricare di nulla del mio operato, e nella mia coscienza nutro una
ferrea convinzione di lealtà verso il Papa, che troverà certo il modo di
ricacciarvi dagli inferi da dove provenite.”
La risposta gli giunse nel solito tono
sottovoce.
“Non proveniamo da alcun inferno e
professiamo la stessa dottrina, non è questo il punto, Inquisitore. Noi siamo
solo dei poveri Bailantes che cercano di sopravvivere con i frutti della nostra
terra, finchè gente come voi viene a privarcene. Solo allora siamo costretti ad
applicare il Codice Barbaricino le nostre leggi della sopravvivenza che ci
costringono a comportarci come nel vostro caso, anche se con lei proveremo un
trattamento particolare”
“E allora sia, non temo il vostro giudizio
e mai mi piegherò alle minacce di quattro pastori male in arnese” sbottò
Eymerick.
“Non mi aspetto certo che capiate, ma
cercherò di spigarmi. Dovete sapere che la nostra è una piccola popolazione che
è sempre stata soggetta ad attacchi e razzie di ogni tipo, mistificate o meno
da motivi religiosi, ma sempre e comunque finalizzate alla riscossioni di
tributi e balzelli, applicando razzie e violenze di ogni tipo. L’unico modo di
difenderci è sempre stato quello di arretrare nell’entroterra, quando questo
non è più bastato, l’unico sistema, che ci ha reso possibile resistere ai
soprusi, è stato questo, prelevare un responsabile e deciderne la sorte in
queste montagne dispensando terrore e dubbi ai suoi simili. Immagino che non lo
consideriate il migliore dei metodi ma in confronto ai vostri non mi sento di
dovermene vergognare”
“Quando si saprà di questo affronto le
truppe Spagnole metteranno a ferro e fuoco la vostra popolazione e voi sarete i
responsabili della morte dei vostri figli. Quando la mano di Dio calerà su
queste genti non resterà più legna da ardere!” urlò Eymerick.
“Tore, accudisci alla carne, accompagno il
nostro ospite a fare una visita.”
Mentre il compagno si avvicinava al fuoco,
Gavino prese Eymerick per un braccio e lo alzò.
Dalla scioltezza utilizzata in questo
gesto Nicolas dedusse il proprio ridottissimo peso, il suo fisico era ormai un
ricordo, e trascinò stancamente le sue membra dietro il pastore alla luce di
una torcia.
Arrancando, trascinato dalla forte
stretta, riuscì a percorrere i pochi metri che lo separavano dalla caverna
successiva, e mentre scivolava a terra la presa del pastore passò dal suo
braccio al medaglione che portava al collo, la cui catena cedette.
Osservandolo attentamente Gavino disse, “Ti
tratti bene, mio buon prete, è sicuramente adeguato al tuo rango.”
Accese con la torcia una lanterna appesa
alla parete e scagliò il monile sopra una cassapanca, dove si perse in una
moltitudine di altri oggetti.
“Potresti definire questo luogo come uno
dei vostri numerosi archivi del peccato. Guardati intorno e ti ritroverai in
buona compagnia” esclamò Gavino.
Incuriosito Eymerick percorse pochi metri
e rimase allibito: la sua conoscenza gli permise di identificare vari oggetti,
guardando il suo carceriere eternamente alle prese con il coltello, rifiuto
l’idea di afferrare una corta daga probabilmente Romanica, di splendida fattura
come un elmo ormai corroso dai decori greci.
In mezzo a brandelli di stoffa ormai
consunti vide il suo medaglione, vicino ad altri gioielli grossolanamente
lavorati, forse Fenici, un brivido lo percorse quando riconobbe una pettorale
di acciaio da ufficiale Spagnolo.
Altri oggetti indecifrabili colpirono la
sua attenzione, splendidi elmi di lucido acciaio con visiere in cristallo,
bracciali neri in materiali elastici sconosciuti, lunghe aste cilindriche con
else sagomate per mani enormi, tutti oggetti che nessun proprietario avrebbe
mai voluto abbandonare.
Distintamente si rese conto che non
sarebbe mai uscito vivo da lì.
“Andiamo, è ora di pranzo, questa visita
ti ha troppo affaticato.” lo esortò il suo carceriere.
“Chiedete quello che volete, dalla Spagna
vi copriranno d’oro in cambio della mia libertà,” sussurrò Eymerich.
“Mi dispiace deludervi, ma non credo che
ci sia nessuno disposto a perdere quest’occasione per sbarazzarsi di vostra
santità, anzi sono sicuro che potremmo ottenere di più garantendo la vostra
ascesa nel mondo dei cieli, e comunque non è questo il cammino di redenzione
che vi aspetta,” un ghigno di
scherno completava la frase.
Seduto nella sua cella, mentre si cibava
avidamente di un pezzo di carne, Eymerick, rivedendo le facce dei suoi
conoscenti cercava disperatamente, ma senza certezze, di identificarne qualcuno
che fosse disposto a pagare il prezzo della sua vita.
Trascorsero numerosi giorni, durante i
quali l’inquisitore ebbe modo di riconquistare parte delle sue forze,
nonostante non osasse uscire dalla sua prigione vedeva i suoi carcerieri
trattarlo con una naturalezza derivante dalla sicurezza che ogni tentativo di
fuga sarebbe stato vano.
I dialoghi pressoché inesistenti si
riducevano a monosillabi ed ingiurie, unico fatto nuovo la presenza, da alcuni
giorni, di una femmina addetta a porgergli i pasti. Sembrava quasi che i suoi
sprezzanti rapitori li lasciassero addirittura soli per diverse ore,
particolare che gli infuse nuove speranze.
Osservava questa giovane donna ogni volta
che si presentava, bruna, bassa di statura e di corporatura magrissima,
sembrava ignorare completamente lo spagnolo; scalza, i sui abiti si riducevano
esclusivamente ad una lunga pelle di pecora annodata in vita che le scendeva
dalle spalle, il suo svincolarsi all’unico tentativo di prenderle un polso ne davano l’impressione di
una forza ed una tonicità inusuali, forse temprata dalla dura vita della
montagna, pensò Eymerich.
L’atteggiamento rassegnato gli valse nei
giorni seguenti una serie di migliorie alla sua situazione, gli era anche
concesso sporadicamente di partecipare ai frugali pasti in occasione degli
arrosti di selvaggina, ma sempre nel tacito accordo che non violasse il silenzio
che li caratterizzava, solo poche frasi di scherno da parte dei suoi rapitori,
personaggi assolutamente taciturni che raramente si esprimevano sempre nel loro
dialetto incomprensibile.
Anche le dosi di vino, unico liquido
concessogli, non gli vennero mai meno. L’onnipresente zucca colma fu per lui
l’unico vero motivo di screzio quando, in preda ad una sbornia violenta, venne
malmenato e legato perché potesse smaltirla.
Strana prigionia la sua, sempre più spesso
si ritrovava ad analizzare quella che aveva fatto subire lui come carnefice, ma
non ne trovava paralleli, le sue vittime erano, o indemoniati sprezzanti della
morte, oppure timorosi
terrorizzati a cui la morte sopraggiungeva come una liberazione.
Quale logica trovare nel suo stato, in
questa prigionia senza catene, senza certezza della morte, dove poter
condividere il pasto con i propri carcerieri, da questa indeterminatezza
continua non riusciva a trarre beneficio neanche dalla preghiera.
Nonostante pregasse e si flagellasse fino
allo sfinimento, non riusciva a trovare le risposte ed il conforto di cui aveva
estremo bisogno, non gli erano state rivolte delle accuse e non era stato
minacciato di morte, aveva completamente perso il senso del tempo e solo il suo
fisico, in netto miglioramento, sembrava beneficiarne.
Semmai il suo stato mentale non dava segno
di recupero, sopravvivevano alla veglia
gli incubi che lo avevano destato in modo tragicamente distinto, non che
si trattasse di allucinazioni, erano delle grottesche associazioni di ricordi
distinti, fuori da ogni contesto, collegati tra loro da chissà quale perversa
logica.
E quindi rammentava, la bimba che rimase
abbracciata alla madre quando lui ordinava di dar fuoco alla pira, la
condannata deflorata dai suoi aguzzini mentre lui invocava il nome del Signore,
la sua ispezione ai resti della popolazione che aveva dato alle fiamme e lo
scoprire sotto i cadaveri degli adulti i corpi dei propri figli soffocati, e
poi ancora le torture, gli arti strappati, le mutilazioni, ed infine i giovani
adolescenti, e le sofferenze che gli aveva imposto considerandole vittime
predestinate del Demonio, lo lasciavano al risveglio insieme al malessere
carnale dell’erezione che immancabilmente provava.
Sopravveniva la rabbia sorda della
convinzione svanita, dei lunghi anni da
inquisitore distrutti da questa anomala prigionia, dove le esperienze
acquisite, che avrebbero dovuto fortificarlo, erano scomparse.
Da questo stato, sudato e delirante, lo
riscosse il richiamo della giovine.
“Il solito galante invito a pranzo in
compagnia di questi esseri poco più che animali,” sussurrò Eymerich mentre si
alzava e la seguiva.
Con sua sorpresa non trovò i pastori,
erano soli, lui e la donna dalla pelle di pecora, accomodatosi notò intorno al
piccolo fuoco diverse pietanze e questo lo incuriosì.
Per la prima volta gli fu concesso di
servirsi per primo, mentre strappava una coscia della lepre arrostita, vide la
sua zucca riempirsi di vino tinto. Che piacere rivedere dei gesti da
privilegio, forse che la selvaggia iniziasse a comprendere con chi aveva a che
fare.
Seguirono sorrisi e risolini in quel pasto
paradossale, dove la carne veniva gustata intingendola in un miele scuro e
amaro.
Insieme al formaggio, dal gusto dolce e
delicato, gustò dei magnifici fichi, di cui pensava non avrebbe più assaporato
il sapore, accompagnati da un aspro vino bianco e corposo dal profumo di
mandorle.
Alle sue timide richieste di spiegazione
riceveva soltanto sorrisi e termini incomprensibili.
Mentre il suo appagamento aumentava e
rideva nervosamente, la ragazza scostò da sotto la cenere un involucro rotondo
di pelle annerita, alla sua richiesta di spiegazioni essa apostrofò l’oggetto
come “Callu”. [ultima poppata del capretto da latte, conservata all’interno
delle pareti dello stomaco ed affumicata, ad alto potere afrodisiaco] Apertolo,
ne fuoriuscì una pasta cremosa che venne spalmata sul pane sottile.
Eymerich rimase stupito, la sua percezione
dei sapori si esaltò, la crema sapeva sì di formaggio ma enormemente saporito e
piccante, e dopo due morsi si sentì pervadere il corpo di una sferzata di
calore ed energia, cercò di placare la sete ma nella zucca trovò un liquore
denso e dolce, composto da bacche di mirto messe a macerare con dell’acquavite
fortissima.
Mentre si tuffava in questi sapori trovò
la giovine al suo fianco che attizzava il fuoco e lo cospargeva di foglie
secche da cui scaturiva un fumo aromatico.
La vicinanza della donna prona sul
focolare, le forze recuperate dal pasto, unite all’innaturale atmosfera di
intimità creatasi, convinsero Eymerich ad allungare una mano verso la gamba
della donna, che ispiegabilmente non si ritrasse.
Convinto dai suoi desideri ed in preda
allo stordimento alcolico iniziò a toccarla sempre più voluttuosamente, in
tutto il corpo, non che lei lo sfuggisse, semmai era il suo corpo che lo
respingeva, sentiva i forti muscoli sotto la sua mano farsi guizzanti, il seno
piccolo e durissimo sembrava non avere capezzoli, quando le dita iniziarono a
esplorarne il sesso la ragazza si allontanò.
Nel buffo modo di rincorrersi a quattro
zampe, come degli animali, Nicolas inseguì la giovine intorno al fuoco, mentre
la ragione scompariva per dare spazio al desiderio irrefrenabile, l’arsura lo
tormentava forzandolo a bere da ogni recipiente che incontrava, intravedendone
tra le volute di fumo solo la vulva tra le magre gambe e la pelle di pecora
sulla schiena.
Il dolore lo strappò dal sonno, i forti
calci alle costole gli tolsero il respiro, mentre i fumi dell’alcol tardavano a
scomparire, il suo cervello intorpidito riconobbe le solite risa di scherno,
cercando di coprirsi dalle scariche di colpi le sue narici percepirono l’odore
di escrementi misto a sangue.
I colpi terminarono. Appoggiato alla
parete, mise a fuoco i suoi rapitori, mentre Gavino gli iniziò a parlargli.
“Inquisitore, è arrivato il momento,
dovremmo parlare delle sue colpe.”
“La ragazza mia ha tratto in un tranello
io non volevo…” il gesto di una
mano troncò le sue parole e capì che non sarebbe dovuto andare oltre, attese.
“Le dicevo prete che è arrivato il suo
momento. Si guardi intorno, riesce a ricordarsi cosa ha fatto in preda ai suoi
istinti demoniaci?”
Eymerich volse lo sguardo verso la caverna, oltre ai resti del cibo e
delle bevande sparsi intorno alle ceneri del fuoco ormai spento, vide nella
penombra un corpo rannicchiato lungo la parete coperto dalla pelle di pecora.
Di scatto si alzò e corse verso di esso, rigiratolo vide una pecora, una vera
pecora, con il cranio spaccato ed il sangue coagulato su di una grossa pietra,
evidentemente utilizzata per quello scopo, vide altro sangue imbrattargli le
zampe e fuoriuscire dal ventre.
“Che razza di sacrificio immondo è mai
questo?” urlò rivolto ai pastori.
“Non è un sacrificio, direi piuttosto un
istinto animalesco, la bestia che lo ha causato è ancora qui con noi, e lei
padre dovrebbe aiutarci a stabilire la giusta pena.”
Nicholas non afferrava il senso di quelle
frasi, iniziò a sfregarsi le mani e le vide ricoperte di escrementi e di
sangue, anche la sua veste ne era sporca, la sensazione di sporcizia lo
pervase, la sentì percorrergli tutto il corpo e focalizzarsi sul suo membro ed
infine capì.
“Noto con piacere che ha già scoperto il
colpevole, lasci che le ricordi che non sazio del cibo e del vino ha cercato di
violentare la ragazza che è riuscita a sfuggirle, a quel punto ha sfogato i
suoi istinti su quella povera bestia che le avevamo portato qui. La consideri una
prova padre, pensi ai sui peccati e ci chiami quando ha deciso la pena.”
Voltatisi, uscirono.
Rimasto solo Eymerich crollò a terra, vani
furono i tentativi di riordinare i sui pensieri, la colpa era troppo grave, non
per il tentativo di omicidio ma per aver giaciuto con una bestia in preda a
tali istinti demoniaci.
Persa la lucidità, decenni di rigidità
monastica e di sacre convinzioni gli rovinarono nella mente, distruggendola,
stappatosi un lembo della veste si bendò gli occhi e cadde in delirio.
Mai più osò sbendarsi, nonostante sentisse
lontanamente le braccia che lo afferravano lo trascinavano e lo legavano,
neppure la fredda temperatura dell’acqua lo riscosse dai suoi pentimenti.
Solo nella sua oscurità attendeva la liberazione
di essere giustiziato.
Infine si sentì afferrare per i fianchi e
scaraventare a terra, la benda gli venne strappata dal viso, era notte e l’aria fresca e leggera, si volse
mentre cercava di rialzarsi e vide quattro ombre allontanarsi da lui.
All’orizzonte stava albeggiando e le mura
di Alghero si innalzavano poderose, mai sarebbe tornato in quella terra per lui
incomprensibile.